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Titel
Italia meridionale longobarda. Competizione, conflitto e potere politico a Benevento (secoli VIII-IX)


Autor(en)
Zornetta, Giulia
Reihe
I libri di Viella 359
Erschienen
Roma 2020: Viella
Anzahl Seiten
340 S.
Preis
€ 33,00
Rezensiert für H-Soz-Kult von
Alessandro Di Muro, Dipartimento di Scienze Umane, Università della Basilicata

Dopo i pioneristici lavori di Nicola Cilento degli anni ‘60, i fondamentali lavori di Paolo Delogu, Stefano Gasparri e Jean Marie Martin hanno focalizzato l’attenzione, tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’90 dello scorso secolo, su vari aspetti della società longobardo meridionale. A partire dai primi anni del XXI secolo si è assistito a una ripresa dell’interesse per le tematiche inerenti la società, le istituzioni e l’economia longobardo-meridionali, anche sulla scorta di preziosissime edizioni di fonti, proponendo rinnovati paradigmi storiografici che hanno aperto nuove vie alla comprensione della complessa e originale vicenda dei Longobardi del Sud. Mancava, tuttavia, una sintesi che fornisse un quadro complessivo delle strutture e della rappresentazione del potere del Mezzogiorno longobardo tra i secoli VIII e IX, soprattutto dalla prospettiva del ‘vertice’, dei principi, e il volume di Giulia Zornetta viene a colmare una lacuna, offrendo molti innovativi spunti di ricerca.

L’autrice dichiara sin da subito il grimaldello euristico attraverso il quale intende aprire le porte alla comprensione del funzionamento dei meccanismi del potere eminente nel Mezzogiorno longobardo, in particolare per l’età ducale (fino al 774): lo studio dei conflitti attraverso la via offerta dall’analisi dei giudicati. Si tratta di una prospettiva certamente nuova che consente di analizzare e comprendere meglio, oltre al funzionamento della struttura di vertice, il ruolo delle aristocrazie e penetrare più adeguatamente altri aspetti quali le modalità di rappresentazione del potere. Giulia Zornetta rafforza attraverso l’analisi dei giudicati, l’assunto storiografico consolidato della forte consapevolezza politica che i duchi avevano del proprio ruolo, in un contesto di autonomia di fatto dai sovrani di Pavia. Con l’istituzione del principato da parte di Arechi II (774) termina la stagione dei giudicati (ricompariranno solo alla fine del IX secolo). L’età di Arechi II (758–787) e del figlio Grimoaldo III si configura come un tempo privo di tensioni all’interno della compagine aristocratica e l’attenzione dell’Autrice si sposta sulla questione relativa all’autorità del principe.

La rinnovata titolatura di princeps gentis langobardorum non esprimerebbe necessariamente una dichiarazione politica di contrapposizione a Carlo, proclamatosi nel medesimo anno rex langobardorum, quanto piuttosto una sorta di accorta sottolineatura indipendentistica comprensibile in un contesto territoriale più ampio, centro europeo. Si tratta di una proposta originale che necessita però di approfondimenti ulteriori. Alle note argomentazioni a sostegno di un significato pienamente ‘sovrano’ del titolo principesco assunto da Arechi vorrei aggiungere che l’attributo fu utilizzato da Liutprano e poi da Ratchis. Vorrei sottolineare, inoltre, come nell’epigrafe composta per la costruzione di Salerno (774 ca), Paolo Diacono utilizzi un lessico politico eloquente da questa prospettiva, con la scelta di appellativi quali pater Patriae e Bardorum culmen che sembrano travalicare in maniera evidente la sfera politica le beneventana, indicando un campo di riferimento più ampio, nazionale e catholicus princeps riecheggiante il christianus ac catholicus princeps con il quale Liutprando si autodefinì nel prologo alle Leggi del 713.

La stessa Zornetta, peraltro, non esita a indicare in alcuni aspetti dell’azione arechiana tratti peculiari che definiscono una consapevolezza politica decisamente apicale, in particolare quando Arechi assume le vesti di legislatore. Anche la proposta di una funzione di Santa Sofia di Benevento in chiave eminentemente locale mi sembra vada discussa: sono infatti dell’avviso che una tale prospettiva sia stato certamente presente nella strategia politica arechiana ante 774 per poi evolvere in quella visione ‘nazionale’ ben indicata da Delogu nel 1977, esplicitata nei diplomi di dotazione di quell’anno al monastero nella formula pro salvatione gentis nostre et patriae.

Detto ciò, mi sembra si possa accettare pienamente la tesi di fondo di Giulia Zornetta che restituisce un profilo di Arechi accorto politico in una situazione difficilissima anziché campione eroico del longobardismo contrapposto all’invasore Carlo proposto dalla cronachistica dei secoli successivi. L’anno 791 segna lo strappo di Grimoaldo III, succeduto al padre nel 787, dalla dipendenza carolingia e diplomi e monetazione riflettono tale svolta che conseguì da un lato una contrapposizione frontale ai Franchi, dall’altro un riavvicinamento all’impero bizantino. A partire dalla fine dell’VIII secolo le grandi abbazie meridionali di San Vincenzo al Volturno e San Benedetto di Montecassino diventano un ulteriore campo sul quale si esercitarono i tentativi di penetrazione dei sovrani carolingi da un lato e le strategie di contenimento dei principi longobardi dall’altro, nel contesto più ampio di un confronto che, secondo Giulia Zornetta, risultò fondamentale per la definizione dell’autorità politica dei principi longobardi.

L’analisi del magmatico IX secolo longobardo occupa la parte centrale del volume. Con la morte di Grimolado III (806) si estingue la dinastia di Arechi e si apre un periodo radicalmente nuovo nella storia politica del Principato, con il riemergere di fazioni questa volta in lotta per il raggiungimento del potere sovrano, in una cornice di dilatazione della capacità di intervento politico dell’aristocrazia beneventana. La fine dei conflitti con i Franchi e la debolezza del nuovo principe, Grimoaldo IV (806–817), privo del carisma derivante dall’appartenenza a un lignaggio di prestigio assoluto, costituirono fattori determinanti in tal senso; parallelamente si assiste ad una tendenza alla regionalizzazione nella manifestazione del ruolo politico del princeps, ben espressa nella monetazione e nei diplomi.

Una congiura ordita da membri eminenti dell’aristocrazia pose fine regno di Grimoaldo e determinò l’ascesa al principato di Sicone (817–832), un esule longobardo diventato gastaldo di Acerenza, sul cui nome conversero tutti i protagonisti della cospirazione, sebbene appartenenti a fazioni diverse. In tale scelta dové pesare l’ascendenza prestigiosa di Sicone (di stirpe regia, come narra l’epitaffio, una genealogia che nessun altro poteva vantare a Benevento) e la considerazione che un esule, estraneo o quasi ai giochi politici beneventani, potesse rappresentare un elemento di equilibro tra le istanze dell’irrequieta aristocrazia palatina, oltre ad essere potenzialmente manovrabile. Nel restituire la vicenda politica dei Siconidi, Giulia Zornetta analizza in maniera raffinata e convincente la dinamica della relazione tra i principi e la sempre più potente aristocrazia, ricostruendo le complesse strategie di allargamento del consenso (in particolare di Sicone), da un lato, e la competizione aristocratica per raggiungere le cariche più ambite dall’altro.

Zornetta sottolinea come le politiche di Sicone e di suo figlio Sicardo divergessero in maniera sostanziale essendo l’agire del primo volto a mantenere l’equilibrio tra i vari rappresentanti dei gruppi aristocratici mentre il successore attuò una politica tesa a favorire apertamente una sola fazione. A tale prospettiva si aggiungono una serie di affondi su altri aspetti della società al tempo dei Siconidi quali il nodo cruciale della gestione del patrimonio fiscale che la studiosa indica convincentemente oggetto di profonda riconsiderazione, e la rappresentazione del potere attraverso le traslazioni di reliquie a Benevento, soprattutto nell’innovativa (per il Mezzogiorno longobardo) pratica dei furta sacra con l’acquisizione di prestigiose reliquie, accompagnate da complessi rituali dal chiaro significato politico nella cattedrale della città. In seguito all’assassinio di Sicardo (839) si assiste a uno sconvolgimento del quadro politico del principato con la deflagrazione di una guerra civile che durerà 10 anni e che porterà alla divisione del Mezzogiorno longobardo in due principati autonomi, uno con capitale Benevento, l’altro con capitale Salerno. Il conflitto vide protagonisti da una parte il successore di Sicardo, Radelchi, un ufficiale di palazzo, dall’altra la polarizzazione dei gruppi aristocratici legati a Sicone, sostenitori del secondo figlio di costui, Siconolfo, con un ruolo di primo piano giocato dal lignaggio di Landolfo conte di Capua, che approfittò del conflitto per porre le basi all’indipendenza della contea capuana.

Attori esterni contribuirono a rendere ancor più complicato lo scenario politico del Mezzogiorno; l’elemento islamico, comparso come milizia a servizio dei contendenti e poi radicatosi come soggetto devastatore con mire di dominio sul frammentato universo meridionale ma anche i nemici di sempre, i napoletani, con la loro politica ondivaga e i duchi di Spoleto. Nella ricostruzione di Zornetta, protagonista centrale della vicenda politica meridionale nei decenni a cavallo della metà del IX secolo risulta però Ludovico II, la cui mediazione permise nell’849 di porre termine alla guerra civile, giunto come liberatore dalla minaccia agarena ma mosso al contempo da mire egemoniche sulla regione, personaggio intorno al quale ruotano conflitti, alleanze, tradimenti. Secondo l’interpretazione dell’Autrice, con i numerosi interventi di Ludovico II il Mezzogiorno longobardo si trasforma da periferia dell’impero in frontiera fino a diventarne parte integrante.

L’Autrice ricostruisce l’evoluzione dell’ideologia che sottostava agli interventi di Ludovico nel Mezzogiorno, con il raggiungimento di una coscienza di dominio assoluto sui longobardi meridionali palesata in alcuni diplomi imperiali della fine degli anni ’60, quando l’imperatore carolingio – intenzionato ad allontanare definitivamente il pericolo saraceno dalla Penisola – risiedette stabilmente a Benevento, periodo in cui l’aristocrazia franca sembra guardare al Mezzogiorno come a un’area di espansione. L’insofferenza verso tale stato di cose e l’atteggiamento dell’imperatrice Angelbega, spinsero Adelchi di Benevento (che già alla vigilia della discesa imperiale aveva enunciato nel prologo alle sue Leggi l’irriducibilità del Principato all’egemonia franca) alla cattura e incarcerazione della coppia imperiale nell’871: Ludovico fu rilasciato solo in seguito al giuramento di non far più ritorno nel Mezzogiorno.

Si apriva così la strada alla ricomparsa da assoluto protagonista nei decenni a seguire di un attore da lungo tempo ai margini della scena meridionale, l’imperatore di Bisanzio. Gli ultimi anni di governo di Adelchi si caratterizzarono per forti tensioni interne, riattivate in connessione con la fine delle ingerenze franche, in una cornice di generale impoverimento del patrimonio fiscale, che culminarono nell’uccisione del principe. In questo frangente le fazioni in lotta per il potere si generarono esclusivamente all’interno della dinastia principesca, in una società come quella beneventana allo scorcio del IX secolo in cui si scorgono segnali di tendenze a costruire spazi di autonomia da parte di alcuni gastaldi. Parallelamente a Salerno si assiste ad una stabilità della nuova dinastia principesca fondata da Guaiferio (861) che governerà per oltre un secolo.

Per quanto attiene al problema della rappresentazione dell’autorità, in generale Giulia Zornetta enfatizza il ruolo del confronto con la concezione politica carolingia del potere come fondamentale per la definizione dell’ideologia e della pratica del potere dei principi, a partire da Arechi e poi in particolare con Adelchi, osservazione valida anche dalla prospettiva della costruzione identitaria.

Personalmente propenderei a dare maggior risalto al richiamo alla tradizione longobarda, che pure l’autrice sottolinea, fortemente operante all’origine stessa del principato come pure, per quanto attiene alla rappresentazione del potere, il richiamarsi ad alcune pratiche di ascendenza romano-bizantina che si scorgono nelle traslazioni beneventane sebbene queste ultime manifestino l’unione del sovrano con il popolo, a differenza delle solenni manifestazioni bizantine finalizzate all’esaltazione del Βασιλεὺς. Detto ciò, bisogna ancora una volta evidenziare l’ampio respiro storiografico del volume e approccio metodologico innovativo che sicuramente aprirà una stagione nuova nel dinamico orizzonte degli studi dedicati al Mezzogiorno longobardo.

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